Santuario di S.Alfio
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LA FESTA DI S. ALFIO
(1938)
La festa risale a tempi antichissimi. La prima traccia
la troviamo nella notizia della sacra rappresentazione del Martirio dei
santi Fratelli che si eseguiva fin dall’anno 1593, data che corrisponde
alla fabbrica della Chiesa.
In seguito la << Venerabile Compagnia
dei Gloriosi Santi Martiri Alfio, Filadelfo e Cirino >>, ne curò
particolarmente lo sviluppo, talché nel 1699 (vedi archivio del Santuario),
già si celebrava con un certo sfarzo. per essa si impiegavano somme rilevanti,
come si rileva dai conti di quegli anni, provenienti in gran parte dalle
oblazioni dei fedeli e dalla vendita dei generi donati ai Santi.
Principalmente si raccoglieva lino e <<funicello>>;
ed erano destinati a questa raccolta due <<consoli>> accompagnati
da un <<ciaramellaro>> e da un <<picciotto>> pagati
ad anno. In detto anno la festa costò onze 23 e tarì 20, fu proclamata
con banditori muniti di tamburi, ed il numero di attrazione fu costituito
<<dalli piffarari di Jaci>>. La Chiesa ed il paese furono
illuminati con <<triangoli di edera>> e dei <<palii>>
vistosi furono comprati per le corse dei barberi.
Per le aumentate spese, sia per le fabbriche
della chiesa, che per la festa, nel 1712 si creò un altro <<consolo>>
per la raccolta del mosto.
Nel 1713 come novità furono ingaggiati i
<<suonatori di trombetta di Jaci>> invece dei pifferi ed i
fuochi artificiali cominciarono ad avere un’importanza straordinaria sia
per la qualità che per la quantità.
Il primo aprile del 1739, Mons. Deodato
concesse la facoltà di celebrare la Messa e l’Ufficio dei SS. Martiri
il 10 maggio, con commemorazione durante l’ottavario e l’ottava.
Nel 1825 il Vescovo Orlando particolarmente
devoto ai Santi, tanto che ogni anno celebrava il 10 maggio il solenne
Pontificale nella Chiesa di S. Alfio, volle accrescere il decoro della
festa obbligando i Canonici della Collegiata di Trecastagni ad officiare
nella Chiesa di S. Alfio per tutta l’ottava con la Messa Conventuale e
Vespro cantato, vestiti dell’insegna Capitolare,
Attraverso i secoli la festa è mutata assai
poco nel suo svolgimento, si è semplicemente adattata ai tempi, ma ha
sempre conservato una grande importanza etnografica. L’illustre Prof.
Pitrè, il quale fu il grande fondatore del folklorismo in Italia, nella
sua raccolta etnografica e precisamente nel trattato <<Feste popolari>>
dà un posto distinto, accanto alla tradizionale Piedigrotta, alla Festa
di S. Alfio. In essa infatti abbonda lo sfoggio del carattere ed il popolo
ci si manifesta sotto tutti gli aspetti che ne rivelano gli usi e i costumi.
Sarebbe veramente difficile volere abbracciare
in un capitolo tutte le manifestazioni di questa vitalità umana in cui
l’arte si accoppia al frastuono ed al chiasso.
Qui è la fiera, che quantunque non segnata
in qualche calendario, pure attira da ogni parte un numero eccezionale
di concorrenti e compratori. Là è una fiumana di gente che va alla <<acchianata
di sapunara>> per godere di una gara forzata di animali. Sono cavalli
che trascinano carri e carrozze, adorni di fiori e di sonagli, guidati
da auriga fieri e festosi in una corsa frenetica per l’arduo pendio allo
sbocco della nostra cittadina.
E gli urli, gli schiamazzi, assordano; mille
scommesse si susseguono; mille e mille voci si incrociano ed incitano
i corridori. Allo sguardo del folklorista questo spettacolo ridesta le
scene superbe delle gare ippiche di Pizia e di Olimpia e di tornei e le
giostre del Medio Evo.
E vanno e corrono questi cocchi sino alla
Chiesa dei Santi Martiri in due file interminabili, che non permettono
di attraversare la strada, e offrono l’occasione di studiare una delle
più belle mostre etnografiche. Sono i caratteristici carri siciliani,
che tanta ammirazione hanno destato in tutte le esposizioni internazionali,
istoriati, illustrati, belli dei loro mille colori, dei loro fregi e rilievo
che hanno logorato il cervello di raffinati artigiani. E noi li ammiriamo
pensando che essi sono l’espressione di una forza fattiva, rude ed incolta,
che spesse volte ci dà dei veri capolavori del genere. Ne ammiriamo il
pensiero che l’ha ispirato ed animato e ci par di rivivere in quelle figure
la vita del popolo con le sue leggende ed i suoi ideali. Rivediamo in
essi le gesta del Guerin Meschino, le scene dei reali di Francia, effigi
sacre e didascalie sgrammaticate.
Nè minore attenzione desta l’arte che adorna
le bestie.
I superbi pennacchi, le grandi penne di
pavone, i sonagli striduli e tintinnanti, le innumerevoli banderuole,
e poi gli ornamenti e ci richiamano alla mente i capolavori di mosaico
e di intarsio e le splendide miniature del Medio Evo.
E passano questi cocchi carichi di persone,
che fanno sfoggio della loro bellezza e delle loro vesti. Sono ragazze
nei cui occhi sorride tutta la poesia del Maggio; sono giovanotti briosi
e superbi, dai motti vivaci che provocano sguardi e sorrisi. E così si
susseguono fino alla mèta, fra una calca di popolo e fra due file di venditori
ambulanti, che gridano su tutti i toni la loro merce. Il piano di S. Alfio
ci offre uno spettacolo imponente. E’ un vocio assordante, un frastuono
indistinto che sale alla testa e mette le vertigini.
Qui è il tiro a bersaglio, il giocoliere
delle palle e delle carte, il cantastorie entusiasta ed ispirato.
Là i venditori di tamburi e tamburelli,
dai colori più sgargianti che stuzzicano tanto i fanciulli e le mamme,
e assordano con i loro ritmici rullii; più in lè vi è il caratteristico
<<caruseddu>>, <<a naca cchi varchi>>, le montagne
russe ed il Circo Equestre ambulante. Insomma in quel piano è un vero
emporio di tutto ciò che può caratterizzare gli usi ed i costumi del popolo
siciliano.
In Chiesa è una folla compatta, divota,
ma inebetita dalla veglia e dalla stanchezza, che si pigia ed accresce
sempre più e rende difficile la circolazione. Al lato sinistro della porta
maggiore vengono appesi i quadri votivi, che ricordano le <<tabulae
pietae>> che i Romani appendevano agli alberi o presso i tempii
nelle solennità di bacco o di Venere. Sono pitture rozze senza estetica,
in cui spesso manca l’armonia delle parti; qualche volta però belle ed
espressive. Certo esse rappresentano una importante raccolta etnografica
anche nella loro rozzezzza. Ed il popolo ne va matto e non si sazia mai
di contemplarle e di fare le sue chiose sul caso che ivi è ritratto.
Ma mentre lo sguardo è allettato dalla varietà
delle tavole votive, un grido caldo e penetrante echeggia nel tempio.
Sono i <<nudi >> ! I nudi
(1) sono dei devoti che hanno ricevuto qualche grazia o favore dai nostri
Santi e che hanno promesso di venire in devoto pellegrinaggio sino alla
Chiesa. Vestono in abito adamitico e credono di salvare la decenza con
una piccola fascia a colore; altri vanno in mutande e camicia. Percorrono
tutta la via di corsa con un cero e un mazzo di fiori in mano e lanciano
continuamente il loro grido di fede: Viva S. Alfio! Alcuni hanno voluto
vedere in questo voto tradizionale un rimasuglio delle feste Ascalie dell’epoca
pagana; oppure un richiamo agli usi del Medio Evo con i suoi flagellanti
che nudi percorrevano le vie battendosi a sangue.
Fino a pochi anni fa, altra scena ancor
più straziante attirava l’attenzione. Erano donne ed uomini che in ginocchio
compivano il voto dello strascico della lingua dalla porta maggiore sino
all’Altare. Anche questo voto richiama alla nostra mente le rigorose penitenze
dei primi secoli della Chiesa.
In mezzo però a tanti usi e costumi che
si perpetuano nella festa di S. Alfio una verità sorge spontanea; il popolo
aspira sempre verso la religione e la fede; il popolo è veramente religioso!
La festa di S. Alfio ne è una prova luminosa.
Qualcuno ha cercato di screditare questa festa ducendola barbara e baccanale.
Se tali denigratori assistessero allo svolgimento di essa e specialmente
fossero presenti a Trecastagni il 10 Maggio, dove potrebbero essi trovare
maggior slancio di fede e di pietà? ed è perciò che la gente venuta dai
più lontani paesi sta là pigiata in Chiesa tutta la notte per assistere
a quel grandioso spettacolo, che si rinovella per l’intero giorno e che
ha il suo sublime epilogo verso il tocco quando scoprono le immagini dei
Santi. Allora è un delirio, una frenesia, una gara, una lotta in cui il
grido di Evviva assume tutte le gradazioni di gioia, di invocazione, di
affetto, di tenerezza ed anche di violenza che si nota maggiormente nella
voce tronca o nel suono inarticolato dei sordo-muti, che attendono il
miracolo. Ed il miracolo talvolta si avvera, là sulla pubblica piazza,
presso il Santuario, dove si ferma a lungo il fercolo (2) prima di intraprendere
il giro trionfale,
La vastissima piazza offre in quell’istante
lo spettacolo d’un mare di teste fluttuante. Un popolo vario e misto,
di cento e cento paesi e città, sta là pigiato, compatto, vagamente interrotto
da mille veicoli, adorni e carichi di altro popolo festante e commosso.
E passano i simulacri fra quella calca
divota, invocati coi nomi più belli, salutati da una continua, spontanea
ovazione, che sul labbro di quei devoti forestieri si trasforma in un
addio patetico, che racchiude tutta la poesia d’una nostalgia sublime
di pietà e di amore.
(1) - L’usanza dei nudi deve ricercarsi
nel culto di San Nicola di bari, per l’antica devozione che i marinai
avevano per questo santo, i cui tempi si erigevano sempre nei siti elevati
e di fronte al mare. Questi nudi non sarebbero altro che gli scampati
dai naugrafi, che ottenuta la grazia di non perire, non appena toccata
la terra, ignudi come si trovavano, partivano di corsa con cero per raggiungere
il Tempio in vista e ringraziare il santo intercessore. Nulla di più facile
che l’omaggio dedicato dapprima a S. Nicola, il cui culto è antichissimo
in Trecastagni, sia poi passato a S. Alfo e fratelli.
(2) - Costruito in legno rivestito di
rame nel 1880 dai fratelli Antonino e Concetto Toscano valentissimi artigiani
concittadini e rinnovato nel traino nel 1938 dai fratelli Sebastiano e
Rosario Toscano figli e nipoti dei primi costruttori. Il baldacchino di
seta ricamato in oro fu eseguito nel 1872 per il vecchio Fercolo e poi
adattato a questo. La ringhiera in ferro battuto con le cifre A.F.C. intrecciate
in monogramma che oggi trovasi sul campanile, davanti le campane dell’orologio,
è quello del fercolo demolito.
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